Il sesso è l’unico elemento che definisce un’identità?
Nel nostro modo di concepire l’orientamento sessuale, partiamo da un presupposto solo in apparenza neutro, ma in realtà profondamente normativo: che l’attrazione sessuale sia una costante universale, qualcosa di naturale, automatica, presente in tuttə. Non ci chiediamo se esiste attrazione sessuale, ma solo verso chi si orienta: un genere, più generi, nessun genere. Anche quando parliamo di asessualità, spesso lo facciamo dicendo “è l’attrazione sessuale verso nessun genere”.
Ecco, anche qui restiamo dentro lo stesso recinto: il desiderio sessuale è sempre il fulcro. Cambiano solo le direzioni, non la mappa.
Questa struttura discorsiva non scardina la sessonormatività: la perpetua. Anche quando include identità che sembrano sottrarsi alla norma, finisce per reinserirle nello schema. Perché, ancora una volta, pensiamo che l’identità sessuale debba essere definita in relazione a un’attrazione sessuale verso qualcun altrə. Come se non potesse esistere niente al di fuori di questo.
E se provassimo a spostare il fulcro?
E se mettessimo davvero in discussione l’idea che l’orientamento sessuale debba ruotare attorno all’attrazione sessuale? Sì, proprio quelle due parole: “orientamento sessuale”. Un’espressione che porta in sé il peso di un corpo che desidera sessualmente, che si muove, si orienta, si dirige… sempre e solo attraverso il sesso. Così facendo, però, esclude, cancella, marginalizza ogni altro modo di stare nel mondo, di entrare in relazione, di essere.
Per questo, ancora oggi, non esiste una definizione di asessualità che sia davvero soddisfacente e comprensibile: perché le persone asessuali devono esprimersi in un linguaggio pensato per descrivere altro. Un linguaggio che nasce da e per chi vive l’attrazione sessuale. Un linguaggio che non prevede la loro esistenza.
Allora iniziamo a porci altre domande:
È davvero l’attrazione sessuale l’unico elemento che può definire il nostro modo di stare nel mondo in relazione allə altrə?
Possiamo immaginare orientamenti costruiti sull’affetto, la cura, la presenza, il legame, il modo in cui sentiamo il nostro corpo vicino a un altro?
E se l’identità non fosse “verso” — un punto esterno che dobbiamo raggiungere, una direzione da seguire — ma “tra”?
Uno spazio liminale, che accoglie ciò che è in transizione, che sfugge alla definizione rigida, e che proprio per questo può rappresentare meglio chi vive l’identità come presenza, non come orientamento direzionale.
Questa riflessione non vuole negare la dimensione sessuale, ma decentrarla. Togliere al sesso il trono che gli è stato assegnato come metro di validazione delle identità. Rimettere in discussione l’architettura di chi è legittimo desiderare, di chi è desiderabile, e di quando un’identità è considerata “completa”.
Proporre nuove definizioni non è un vezzo teorico: è un atto politico. È creare un linguaggio che lasci spazio a chi non si riconosce nel modello della sessualità come destino o dovere. È creare parole per chi, semplicemente, non vuole che la propria identità sia ridotta alla traiettoria del desiderio sessuale.
Senza le parole giuste, non possiamo rappresentarci, né essere ascoltati veramente. L’urgenza è onomaturgica: abbiamo bisogno di creare nuove parole, che diano forma all’esistente, che rendano visibili le esperienze non dette, i vissuti sommersi, le identità inascoltate. Senza un linguaggio che parli davvero di noi, continuiamo a vivere in un mondo costruito per altrə. Un non-luogo di identità negate.
Sissi per Ace Salento, Carrodibuoi